LUNA

Racconto pubblicato in
Linguamadre 2009

©Lingua Madre


LUNA
So che la luna o la parola luna
è una lettera che è stata creata
per la scrittura di quell’intricata
cosa che siamo, numerosa e una.
Essa è uno dei simboli che all’uomo
dona il caso o la sorte perché un giorno
di esaltazione gloriosa o agonia
egli possa tracciarne il vero nome.
Jorge Luis Borges


Ha cominciato a sentire la voce di sua madre, nitida, dolce e con il suono pieno quando aveva circa trentadue settimane. Era feto. E il battito del cuore pervadeva tutto, ma lei riusciva a stare ferma e concentrata appena udiva la melodia delle parole che pronunciava la sua mamma, e poi muoveva in modo alternato le gambe e agitava le braccia, perché era contenta di essere capitata lì in quel mare caldo, nell’essere dalla voce calma e netta.
La carne della madre le divideva e le univa. Il suo sangue la nutriva, ma non potevano vedersi perché la figlia era in un antro dentro di lei, nascosto meticolosamente pure a lei, e non restava loro che immaginarsi reciprocamente, un po’ meno di come noi terrestri possiamo rappresentarci gli abitanti di altri mondi, di altri universi. Se fossero state cinesi la pancia della sua mamma sarebbe stata coperta da un panno rosa perché non guardasse il mondo esterno e non si rifiutasse di nascere. La paura di alcuni abitanti della terra può quindi essere la consapevolezza di aver intorno a sé un posto talmente orrendo che, a saperlo, non ci si arriva volentieri.
Non credo che sua madre si aspettasse una bambina con la faccia come la sua. Se è vero che siamo tutti diversi, le combinazioni dei visi degli antenati sono troppe per riuscire a mettere insieme le diverse caratteristiche e indovinare quel che salta fuori da quell’intruglio di polveri di stelle. Il suo nome fu comunque astrale, perché la chiamarono Čereķa.
Appena nata sorrideva al suono della voce di sua madre, per il resto non sapeva dove era capitata, sta di fatto, che, non sapeva neanche lei il motivo, qualunque paio d’occhi si avvicinasse, era stata programmata a fare un movimento della bocca per cui tutti, indistintamente, parenti o emeriti sconosciuti, erano felici di osservarla inteneriti, e non vedevano l’ora di potersi prendere cura di lei. Cura dei libri di pedagogia. Così è fatto il mondo.
Col passare del tempo aveva capito che quei suoni che sentiva quando non era nata, avevano un significato, e servivano alle persone che vivevano intorno a lei, per trasmettersi idee pensieri richieste desideri, senza troppi intoppi di comunicazione.
Col passare del tempo non aveva più il sorriso riflesso della legge di natura, ma il desiderio di protezione dei membri della sua famiglia, che l’avrebbero difesa, lei cucciola di essere umano, dai potenziali predatori ancestrali, che non esistevano più, che però l’evoluzione non ha ancora registrato e deciso come assimilare e adattare nel cervello, così come non ha ancora smesso di farci produrre troppo acido cloridrico di cui ci aveva forniti per digerire la carne cruda, ancora cibo degli animali che non possono mettersi ai fornelli.
Tredici anni dopo l’uscita dal corpo di sua madre e dopo l’attribuzione che le era stata fatta di un nome a cui rispondeva voltandosi istintivamente, era in un utero di metallo, non più sola e non al calduccio, ma insieme ad altri esseri simili a lei al novantanove virgola nove per cento e diversi da lei per uno zero uno per cento che li rendeva dissimili quasi in tutto, quasi per tutto.
Il rombo del motore aveva un che di fastidioso e innaturale, e a fatica si sentivano le voci di quelle persone che condividevano con lei lo spazio che li avrebbe partoriti in un altro luogo, una volta che l’aereo fosse sceso a terra. Era la sua terza nascita. Non certo la prima per nessuno dei coabitanti di quel grembo pensato e assemblato da menti umane.
A dispetto di quel che dice Shakuni, il venditore di parole in "Ulzhan", il mondo è pieno di confini, che rappresentano limiti, e separano anche dalla voce nitida, materna, che ciascuno nell’universo noto ha sentito quando era feto, frontiere più o meno sorvegliate che rendono ciascuno più disuguale di quel zero uno per cento che naturalmente lo caratterizza.
Alla sua seconda nascita corrisponde l’apprendimento della lingua degli abitanti d’Italia, e le abitudini e i costumi che lei sapeva del popolo italiano, l’intero popolo italiano. Alle sue prime due nascite era presente sua madre, approdo sicuro in caso di incertezze, con quella voce calma e netta, che pronunciava parole dolci, quel lento incedere per casa e la mano che non lesinava una carezza. E insieme a lei una serie di altre persone partecipavano alla cerimonia che accompagna ogni venuta al mondo. Dissero Čereķa, ora sei bambina figlia studentessa. Sua madre conosceva l’italiano e perciò non voleva che lei rimanesse fuori da quel confine che aveva valicato, una lingua è una barriera e un legame allo stesso tempo e le madri accompagnano i figli a superare ostacoli, così, erano di nuovo insieme, stessa conoscenza, e poteva effettuare la sua stessa esplorazione nel mondo del pensiero, perché il creato e le idee fatte parole e segni sono patrimonio dell’umanità, e non hanno limiti per nessuno, nessun confine, come dice Shakuni.
Andò oltre quel che sapeva sua madre, perché imparò a scrivere in italiano, a giocare con le sillabe e inventare parole. E comunque con la mamma preferiva la lingua del loro affetto, la lingua in cui questa sapeva contenere i suoi capricci, e dirle cose buone che non aveva mai udito nell’altra lingua.
La sua generazione era già la seconda che non aveva conosciuto direttamente l’occupazione italiana. Il nostro imperatore al suo rientro aveva perdonato tutti i traditori che avevano collaborato con il nemico e aveva concesso agli italiani di proseguire indisturbati le loro attività economiche. A metà degli anni settanta era facile incontrare vecchi italiani che non sognavano neanche lontanamente il ritorno nella loro patria: qualcuno aveva una piccola impresa artigiana nel settore dei ricambi d’auto o edilizio, c’era chi gestiva gelaterie e pasticcerie oppure riparava orologi pur facendo una gran fatica a guardare attraverso il monocolo. L’inimicizia quindi non apparteneva ai due mondi coesistenti, anche se i vecchi uomini italiani, singoli fiocchi di neve di una palla resa compatta da un gregarismo imposto, che non si erano sciolti al sole, superando quindi ben due confini, avevano scardinato l’equilibrio di alcune ragazzette, generando con loro figli destinati presto ad essere orfani e discendenti di chi ha combattuto una guerra insensata rivolta a se stesso, alla futura carne della sua carne, un vero abominio da dimenticare o da ricordare per sempre.
Nacque per la terza volta in Italia. Il suo nome per gli italiani d’Etiopia della sua generazione, bilingui, era un nome non più confine, di facile pronuncia, di cui capivano il significato, giacché in Africa per trad_izione ci chiamiamo con una parola che abbia un senso immediato. In terra italiana il suo nome/frontiera divenne Luna, questa è la trad_uzione di Čereķa. Il suono era diverso e perciò a lei sembrò di aver cambiato nome seppure fosse sempre un satellite che si vede a metà. Sono sempre io, si disse.
Il primo evento che la colpì al suo arrivo fu la durata del giorno. L’equatore rendeva uguali persino il dì e la notte, mentre in quel giorno d’estate romana il sole tramontò ben oltre le otto di sera. Avrebbe visto splendere in cielo la sua omonima senza vita, ma esistente da sempre, per un tempo più breve, magari sentendone la sua mancanza, mentre con l’arrivo dell’inverno avrebbe dovuto o potuto sopportare o contemplare la sua immagine più a lungo.
Se è vero che un battito d’ali di una farfalla in Islanda può provocare il maremoto in Giappone, ciascuno di noi è inscindibilmente legato all’altro, anche al suo starnuto. Il fato, la fortuna, il destino, che la Controriforma volle assolutamente chiamare soltanto Provvidenza, volle che Luna fosse stata accompagnata in Italia da una santa donna che l’aveva preadattata al nuovo ambiente. Luna conosceva a memoria Ti amo e un bambino che sogna cavalli e si gira e Umberto Tozzi, Adriano Celentano e Svalutation e provocation, dall’altra parte della luna e Lucio Dalla e aveva già adorato la bellezza di Franco Gasparri.
Il giorno in cui la donna traghettatrice che aveva presenziato alla sua terza nascita disse a Luna che essere rimpatriati significa stare entro i confini d’Italia, ma senza di lei, che aveva altri impegni improrogabili, altre partenze da gestire, la ragazza smise di splendere per se stessa e per gli altri e dal suo volto sparì per sempre il sorriso. Luna si rifugiò in se stessa, niente più forza di gravità, leggerezza senza radici per volteggiare nello spazio siderale. Luna era bambina, profuga, sola.
Da allora ben tre decenni sono passati. Per tre volte le sinapsi del cervello si sono modificate. Tre lune, tre volte diverse anche le persone che cambiavano a seconda dell’epoca. Luna porta sempre con sé la carta di identità. Ogni tanto crede di chiamarsi Čereķa, ma subito legge il documento e si dice, ma che sciocchezza vado a pensare, io sono Luna e appartengo all’umanità come la piramide di Giza, la quinta di Beethoven, i resti di Petra. Come i pensieri di Galileo sulla lib_razione, per vedermi un po’ più che a metà. L’Italia è un Paese meraviglioso che mi ha rimpatriata a mia insaputa dove non sono nata, dall’altra parte della luna, tenendo aperte le frontiere per me e dandomi un’identità a me sconosciuta, profuga, una terza nascita, senza cerimonie.
Ma non sapeva neanche lei il motivo, qualunque paio d’occhi si avvicinasse non era più programmata a fare nessun movimento della bocca, per cui tutti erano indifferenti alla sua vista e nessuno pareva intenerito o che vedesse l’ora di potersi prendere cura di lei. Così è fatto il mondo.
Le capitò fra le mani un Brecht profugo in Scandinavia negli anni quaranta, e lesse, grata dell’ironia:
  • Kalle – …Persino il malato che riceve l’estrema unzione dal parroco è un cliente di costui. Si tratta sempre di “servizio al cliente”…è deprimente trovarsi in un paese dove tu dipendi dal fatto che un altro arrivi ad avere tanto amore per il prossimo da mettere a rischio i propri interessi per causa tua. Ti senti più sicuro in un paese dove non occorre l’amore del prossimo per essere curati.
  • Ziffel – Se puoi pagare, non sei mai in nessun posto alla mercé dell’amore del prossimo.
  • Kalle – Già, se puoi.