TAITU

A Ţahaitu piaceva il Fәlәwәha
di Amete G. di Liberio (pseudonimo di Carla Macoggi)
Ţahaitu
“…a nord ovest della città metropolitana un nuovo vastissimo quartiere pronto con casette
in muratura ad accogliere gli indigeni allontanati dai tukul, primo assaggio di quella che sarà la
futura città dove gli indigeni saranno suddivisi per razza e per religione”.
Istituto Luce, 1937
Il caldo aroma del caffè
che attira
il corpo d’un uomo
che ha forza
la bontà del lavoro
che crea
il raggio del sole
che riscalda
il volto della luna
che risplende
il fine della nascita
che protrae la vita
il gioco della vita
che affascina e affanna.
E a tutto questo la grazia della morte,
la ferocia della morte
pone una fine
Aberra Lemma
 
Gente di colore, è nella non violenza
che l’unico colore è il colore dell’uomo.
L’unico colore dell’uomo
è nella gioia di affrontare la propria oscurità.
P.P. Pasolini

Dicono “ogni riccio un capriccio”. È un modo di dire. Non credo sia un modo di dire nato dalla riflessione di un riccio. Questione di out-group.
Che lo stereotipo o il pregiudizio nascano e si consolidino acquisendo quella loro strana peculiarità di essere duri a morire, anche e soprattutto grazie alle parole inserite in modo così preciso e puntuale nei modi di dire, non lo devo certo raccontare io. È una banalità.
Processi di conoscenza. Costruzione di entità autoevidenti, attraverso parole e simboli per creare disuguaglianze. Asimmetrie care ai potenti che sanno convincere.
Il capriccio è roba da bambini. La loro parte meno gradita. O di donne sciocchine nel pensiero dei più, che si tengono preferibilmente come amanti con cui trascorrere momenti di spensieratezza, quasi infantili, per l’appunto. Come accadde a Marilyn che non so quanto fosse sprovveduta, ma nulla poté salvarla da un cerchio di morte che la vide oggetto di attenzione di un uomo di potere. Per togliersi un capriccio.
E i ricci, delicati capelli biondi dei bambini che sembrano putti rinascimentali, qualcosa che ispira tenerezza, l’infinita purezza dell’immaginario, quelli del detto, li chiamano riccioli. Non sidice “ogni ricciolo un capriccio”. Questione di in-group.
Così, quel detto è stato forse coniato da chi non gradisce né il capriccio né il riccio adulto? E come potrebbe? Il capo diventa riccio, caporiccio, kinky, “siccome avviene per paura”, ed eccoci al capriccio, a un’idea balorda, una bizzarria, un frutto dello spavento, comunque sia.
“Paganini non ripete”. È un altro modo di dire. Come fa un improvvisato capriccio barocco ad essere riproposto uguale a se stesso anche se su richiesta di un re? Così, tanti desideri bizzarri di bambini, rimangono unici e mai più ripetuti: voler fare l’astronauta, catturare la luce, avere poteri magici...però pare che Paganini abbia ripetuto, non proprio in quell’occasione…
A differenza di quelle dei bambini, le stramberie improvvise di adulti hanno segnato il destino del mondo. Capricci, comunque. Ne sono convinta. Quelli del detto “ogni riccio un capriccio”. Mi piace sorridere al pensiero che Addis Abeba sia nata per una stravaganza. Di una donna potente, un’imperatrice, un’Әteghe e non una Nәghәsәt, che ha comandato una divisione militare e ha lottato per difendere il suo Paese dall’assalto nemico con armi italiane. Per proteggerlo da un capriccio, italiano. Si può sconfiggere un battaglione in guerra: lo può fare una regnante, non una donna qualsiasi, ma quella stessa donna che lascia un segno nella storia, se teme il freddo, può diventare tanto irragionevole da chiedere al marito di fondare un Nuovo Fiore invece che un Nuovo Mondo.
Fu il clima di Finfinne a decidere dell’attuale capitale d’Etiopia.
Duecento metri più su, Ţahaitu si congelava. Preferiva di gran lunga i bagni di acqua calda che ci sono tuttora, nella zona di quello che fu il quartiere imperiale voluto da lei, a partire dalla piscina per ricchi del padre della liscia e capricciosa Paris Hilton, fino giù giù le sorgenti del Fәlәwәha, dove è possibile farsi lavare e massaggiare come ai tempi del riccio Mәnilik, per nulla spaventato dalle mire espansionistiche dell’Italia di Crispi. Dicono omen nomen, ma non so proprio se era crispy, e in questo simile al suo avversario habäsha di allora. So però che non apprezzava il trasformismo, un particolare cibo prelibato, nel III millennio gregoriano, il preferito dei parlamentari italiani, disposti a tutto pur di non cedere lo scranno ed essere così pedine e piccoli dittatori locali allo stesso tempo, insigniti a vita, banderuole ondeggianti come ricci o dritti come le loro aste, quanto i loro capi. Tutto il mondo è paese. È un altro modo di dire.
Sono nata ad Addis Abäba e non nella città che Mәnilik avrebbe voluto come capitale del suo impero. Non sono nata a Nuovo Mondo, Addis Aläm. C’è chi dice che Addis Abäba sembri una città europea. Io ho visto prima Addis Abäba, il mio paradigma, e poi le città europee. Mi sembrano tutte così diverse una dall’altra...e perciò affascinanti, anche quelle in cui dico “ecco, qui non abiterei mai e poi mai”, ammirando o compatendo chi vi sta convinto di essere nel luogo migliore sulla terra. Non per capriccio. Sono quelli i momenti in cui viene da riflettere che tutti, proprio tutti, senza saperlo, pensiamo di essere di passaggio…erranti disposti a trascorrere parte di uno sperato e avvilente infinito anche in posti che ci appaiono desolanti. Credo che la felicità dell’essere umano sia proprio nel fatto che la bellezza sia soggettiva. È la democrazia a non essere soggettiva.
Nei miei ricordi di bambina le strade asfaltate, principali direttrici di Addis, erano indispensabili e pensate per la circolazione delle auto e non delle persone, quelle che quando si incontrano, si salutano, stanno ore a raccontarsi come sta tutto il parentado e il vicinato. Questo accadeva nei vicoletti e non in quelle strade gigantesche ai miei occhi di piccina. Passaggi un po’ più larghi delle calli veneziane calpestate da quel Marco Polo che conosceva per sentito dire gli habäsha che se ne stavano sull’acrocoro a pregare il suo stesso Dio.
A differenza di quel che accade tuttora nella fortunata città lagunare, durante la mia infanzia, in Etiopia, alcune automobili, per capriccio, si avventuravano anche nelle vie sterrate che a malapena le contenevano in tutta la loro larghezza. Intanto chiunque era capace di improvvisarsi riparatore e risolvere eventuali problemi di ammortizzatori o cose simili: qualunque persona diceva di aver avuto a che fare anche lontanamente con qualche civilizzatore (nel senso di portatore sano del gracile motore a scoppio) che aveva percorso chilometri e chilometri per entrare nella capitale, per consegnare a Vittorio Emanuele il titolo di Imperatore, e aveva mostrato ai nuovi sudditi trasecolati di un Nәgus Färänğә d’oltremare, come sistemare la rottura di una coppa dell’olio. L’occupazione non era ignota alla Fiat, felice di aver blandito e reso consumatori dei suoi prodotti anche uomini potenti dalla faccia scura che avrebbero dovuto pensare alla storia del proprio paese.
In quei casi, alcuni pedoni si facevano da parte, eccome, passava un mezzo moderno, tutti lì a osservare quella cosa ingegnosa, ma altri lo ignoravano e proseguivano senza degnare la minima attenzione a quella ferraglia. Per i primi chi possiede e usa un’auto ha certo più ragione di chi si muove solo camminando, rimasto semplice bipede quasi come ai tempi di Dәnәkәnäsh, la piccola Lucy lontanissima antenata degli Afar, i venditori di Assäb, che forse si sarebbe mossa anche più velocemente, visto che scansare una pietra era più semplice per un marciatore degli altopiani con buone gambe, rispetto a una macchina, seppure di chissà quale cilindrata. Per gli altri, quell’aggeggio era un turbatore della quiete e nient’altro e la dimostrazione stava in tutto quel rumore per nulla, il nitrito di cavalli imbrigliati a casaccio e incastrati in una viuzza impedendosi a vicenda di andare oltre.
Dunque le grandi vie moderne di Addis erano per mezzi evoluti, non per alcuni esseri umani che le percorrevano, rimasti antichi per scelta, perché appartenenti alla stirpe di Davide e in attesa del Regno a cui erano destinati per volere divino. Nel frattempo, però c’era comunque un vero cuore pulsante della città: era nelle casupole nascoste dietro quelle vie su cui si affacciavano negozietti sgangherati (ma che offrivano tutto ciò di cui si aveva bisogno senza vagare di qua e di là come oggi è imposto nei centri commerciali - anche nella capitale d’Etiopia, per chi può e sogna il benessere nell’accumulo di beni, da portare oltretomba -) oppure gli abäba di Addis, gli arbusti curati per ordine del Nәgus, tornato dall’esilio o infine gli eucaliptus che erano stati importati dall’Australia. Da Mәnilik e non dal Du_cce, come dice un documentario dell’Istituto Lu_cce, bontà sua.
Perciò la città vista da me quando avevo quattro o cinque anni, nelle passeggiate in strade pseudo europee, era quasi sempre pressoché vuota di passanti, strade che mi parevano, già allora, un monumento alla maestà che prescindeva assolutamente dalla vita quotidiana. Per il troppo sole o per la pioggia la gente se ne stava altrove, non si sa dove, molto probabilmente in quelle viuzze che erano parte integrante delle abitazioni costruite senza cemento.
Detronizzato il piccolo Täfäri Mäkonnän dal primo triumvirato, prima della presa di potere da parte dell’alto Mänghәstu, gli esseri umani di Addis presero possesso delle strade d’occidente. E fu una grande sorpresa per tutti. Tutta quella gente in divise colorate, sottomessa e felice, cantava inni contro l’imperialismo e non stava più rintanata nelle case, molte delle quali oggi si direbbero ecologiche, completamente di materiale naturale, se si esclude il tetto di alluminio, segno della modernità urbana, mentre gli stessi gojo o tukul nelle campagne continuavano a limitare il loro confine con il firmamento con tronchi di legno su cui abbondavano strati e strati di fieno. Le persone sfilavano ora orgogliose di dire che sapevano dell’ingiustizia che aveva colpito la moltitudine della regione del Wällo annientata dal dәrq, la siccità, fatto non umano, che Hailä Sәllassē, la forza della trinità, aveva preferito tener segreta al resto del mondo. La lenta tivù etiopica trasmetteva fino all’ossessione le immagini di bambini dalle pance gonfie, donne e uomini Amhara come Hailä Sәllassē, per lo più, indeboliti dalla carestia. Era l’inizio di una propaganda che esortava alla sommossa. Sembrava si volesse dar voce agli esseri rimasti ai margini di tutto e non fu difficile per la quasi totalità della popolazione identificarsi con i nuovi capi, perché ogni abitante d’Etiopia sapeva che quello che vedeva per televisione era il suo possibile destino o quello di qualche suo familiare se il cielo, per due anni consecutivi, si fosse dimenticato di rovesciare secchiate d’acqua da giugno a settembre.
Ad Addis Abäba le adunate non si contavano più. Le automobili persero il loro dominio sulle strade, mentre persone sorridenti piene di entusiasmo, Dio solo sa quante, accorrevano da qualsiasi punto della città per essere presenti ai discorsi dei tre membri delle forze armate che avevano decretato la fine dell’impero salomonide in Piazza della Rivoluzione, l’Abyot Adäbabay.
Stranamente nessuno in Europa, in quel 1974, volle che il titolo di Re dei Re navigasse verso nord, attraverso il Mar Rosso. I tempi erano cambiati anche fuori d’Etiopia.
Mi intristisce pensare che una potenza occidentale quasi quaranta anni prima di quei fatti, avesse dovuto utilizzare uomini che facessero gli autisti, trascinassero camion, viveri, fucili e munizioni, litigassero con muli di alpini, volassero su aerei per stanare i negussiti e massacrarli in modo macabro, mentre impugnavano ancora armi italiane fornite da Mussolini, né riccio né liscio, ma calvo, il quale aveva proclamato al popolo estasiato riunito in Piazza Venezia che Badoglio aveva compiuto la grande impresa: era entrato in Addis Abäba. Nel Nuovo Fiore e non nel Nuovo Mondo. Una conquista da poco, un’azzuffata squilibrata in tutti i sensi, costata tante vite, ma questi sono dettagli di poca importanza, per i capricci dei potenti. Era il risultato della volontà degli italiani che “con plebiscitario slancio” avevano “offerto oro e ferro alla Patria ingiustamente boicottata” per “vedere un fatto nuovo nella storia dell’umanità: il popolo italiano che è il protagonista della sua storia!”… “Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni. Ora basta!”. Era una bizza. Assurdo fare tutto questo per proclamare il proprio re Nәgus Näghästi. Assurdo dover uccidere perché gli anni di quegli omicidi vengano ricordati come gli anni di maggior consenso popolare per un capo di governo.
Governare un Paese senza garantire il benessere dei cittadini deve essere un mestiere difficile. Hailä Sәllassē era stato sicuramente un uomo abile e determinato. In quarantaquattro anni di dominio avrà anche elargito qualcosa, ma non abbastanza, e aveva usato necessariamente l’oro e il platino, proprietà del popolo, per armare il suo esercito personale e ingraziarsi i ras, pedine e piccoli dittatori locali allo stesso tempo. Avvolto nell’aura mistica della religione di stato, la maggior parte del popolo passava il suo tempo a pregare, digiunare e a lavorare nei campi per il clero, i nobili e gli stranieri. I figli degli uomini di fiducia dell’imperatore potevano studiare e occupare i pochi posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Alcuni di essi, se risultavano studenti meritevoli, potevano ambire alle Università straniere, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Canada o in Svezia, paesi di lingua inglese, quella usata per gli studi secondari e oltre nella totalità delle scuole etiopiche pubbliche. Ai figli dei contadini che scalpitavano per un futuro diverso da quello dei genitori non restava altro che arruolarsi giurando fedeltà a Sua Maestà e sperare nella carriera militare. C’erano rare eccezioni di mobilità sociale, naturalmente, ma si potevano contare sulle dita.
Nel ’75 lo slogan più diffuso del Därg, dei collaboratori di Guad compagno Mänghәstu fu “märet lä-aräsha”, la terra a chi la coltiva. Un nuovo modo di dire, uno slogan facile da trasmette di bocca in bocca, di cervello in cervello. Nacquero le cooperative di agricoltori a cui furono affidate le terre che da sempre zappavano come mezzadri o come schiavi-braccianti. Le uniche industrie delle periferie di Addis furono espropriate per diventare statali. Tutti erano funzionari di Stato, anche i ragazzi che dovettero andare nelle campagne a insegnare a leggere e a scrivere. La vera modernità era la cultura, ma per un periodo non breve l’Università, forse perché dedicata a Sua Maestà il Nәgus, morto in quei giorni, fu chiusa, probabilmente in segno di lutto.
Naturalmente io come sempre non sapevo cosa stesse succedendo. Avevo dieci anni e vivevo in una casa dove pareva vigessero le norme di extraterritorialità italiana. Mia madre doveva mettere al mondo la mia sorellina e nel frattempo io dovevo abitare lontano da casa. Nessuno mi raccontava cosa stesse succedendo: l’unica cosa che mi lasciava attonita erano quegli spari, assordanti prima e poi sempre meno e poi più forti ancora, dal momento in cui calava la sera e fino a quando le mie orecchie stanche si addormentavano senza che neppure me ne accorgessi. Il coprifuoco non aveva cambiato la mia vita di bambina e non potevo sapere cosa significasse per gli altri. Certo, per le strade c’erano centinaia di uomini armati e vestiti di verde, ma io notavo soltanto che anche loro, come tutti gli etiopici, non sopportavano stare al sole e allora erano accoccolati sotto un albero le cui chiome arrivavano di qua dalle pareti di lamiera ondulata che nascondevano centinaia di persone, costretti a sopportare quei trambusti notturni. Sulla Cärcir Godanà, la via principale che portava dritti dritti dalla stazione al municipio, i militari cercavano la sottile ombra di un palo della luce e accettavano fieri o rassegnati, chissà, il capriccio collettivo, scaturito dall’amore per il prossimo, dall’odio per il Nәgus, dalla voglia di modernità, di un’equa distribuzione della ricchezza, di detenere il potere, dettare nuove leggi, distruggere, costruire, uccidere la mancanza di democrazia con le armi dei capitalisti per non sentirsi più così frustrati. O da una ripicca.
La notte in cui furono uccisi quasi un centinaio di coloro che erano considerati nemici del nuovo regime era impossibile dormire anche per me: le mitragliatrici non tacquero mai. Con tutto quel rumore la mia mamma forse quella sera aveva il ras mәtat, il mal di testa, e magari non aveva nessuno che le preparasse il caffè, il suo toccasana per tutto, chissà. Nelle settimane successive ci furono regolamenti di conti che costarono altre vite. Era il periodo del terrore stalinista mentre ancora si utilizzavano i fondi Usa per le loro basi in territorio eritreo. Ora le strade erano il luogo dove venivano abbandonati i morti. Ed erano guai per chi si avvicinava, per chi reclamava quei corpi. Quando raccontai che avevo paura, la donna a cui ero stata affidata mi disse di non guardare niente, di voltarmi dall’altra parte se i miei occhi incrociavano quelli di un cadavere e far finta di non aver visto. Dovevo continuare ad andare a scuola come se nulla fosse.
L’anno dopo fui portata in Italia. Per ben cinque mesi non ebbi notizia dell’Africa. È probabile che qualcuno pensò che a una bambina di undici anni non interessassero quei discorsi. Il fatto era che anche a quell’età stavo in pena al pensiero che tutti i miei familiari stessero laggiù, nel caos che non comprendevo, mentre in altri posti del mondo, come quello in cui mi trovavo, al massimo scoppiavano i fuochi d’artificio di ferragosto che facevano brillare di gioia gli occhi dei miei coetanei. A ogni esplosione avrebbe corrisposto una lacrima che ero costretta a trattenere per non addolorare chi si godeva in pace le ferie estive.
Se la democrazia non è nel diritto naturale, notizie dell’esistenza di essa arrivarono in Etiopia grazie agli studenti che avevano viaggiato. Erano troppo pochi, isolati, appartenenti a famiglie privilegiate invischiate con il potere monarchico e sicuramente dubbiosi su quel che avevano visto in occidente. Là non contava la loro appartenenza al regno di Salomone, di cui forse pochi loro compagni di studi avevano sentito parlare. La cosa più evidente era la loro pelle scura. Su questo forse non sarebbero stati capiti in patria. Anch’io avevo scoperto il mio essere nera in Italia. Un’addetta all’ufficio anagrafe mi disse: “Quando vedremo un puntino nero nella nebbia, sapremo che sei tu”.
L’imperatore avrebbe dovuto dire a tutto il suo popolo questa verità. Il suo essere cristiano Amhara gli faceva prendere le distanze dagli altri suoi sudditi diversi per la inequivocabile origine camitica e cuscitica, per la loro religione animista o mussulmana e si difendeva da tutto ciò proclamando con forza il primato della Chiesa ortodossa, religione non per neri, e acquistando armi dai popoli cristiani. Questione di in-group. Diceva Cerulli, uno studioso dell’epoca fascista “…ancora abbiamo non soltanto genericamente nella comunanza del Cristianesimo avito, ma anche nell’assimilazione di singoli problemi religiosi un’altra prova di quei legami dell’Etiopia con la civiltà mediterranea, che sono…la caratteristica dello sviluppo storico culturale etiopico”.
Il re dei re avrebbe dovuto ribattere che dovevano inserire l’Etiopia fra le civiltà di tradizione scrittoria prettamente africana: vi era il sostrato semitico di origine asiatica che ebbe nel I millennio prima di Cristo una sua fase di espressione scritta in lingua sabea a cui si aggiunse una lingua propria affine al sudarabico, il gĕ´ĕz, facendo dell’Etiopia il più antico impero africano, e non mediterraneo, un impero multiculturale che aveva dato asilo persino a Aisha, la moglie preferita di Maometto, che il suo era un paese votato alla pace universale e non alla guerra, che credeva fermamente nel potere della Società delle Nazioni, la quale avrebbe dovuto impedire l’attacco italiano, e infine che nel Sinai, Mosé sposò una donna cuscita d’Etiopia, nonostante l’ostilità dei fratelli: colui che aveva ricevuto le tavole dei dieci comandamenti aveva sposato una donna discendente di Kush, e quindi di Cam, una donna nera di pelle, molto più nera di Mänghәstu. Il Nәgus aveva taciuto ed era stato costretto all’esilio. Questione di out-group.
Il potere dell’imperatore era una medaglia che mostrò la sua seconda faccia, inghiottendolo e facendolo svanire come se nulla fosse, perché un potere ingiusto. All’omissione di verità sull’esistenza del razzismo dovunque e da parte di chiunque, pensò di rimediare Mänghәstu nel suo primo discorso di insediamento. Egli disse: “In questo paese, alcune famiglie aristocratiche classificano automaticamente le persone con pelle scura, le labbra tumide, e i capelli kinky, come “baria”, schiavo,...sia ben chiaro a tutti che presto farò stare questi ignoranti chinati a macinare il frumento!” 
I primi morti di cui ho detto, volendo cadere nella trappola del pregiudizio, immagino fossero nobili, avessero la pelle più chiara della sua, le labbra non carnose e i capelli un po’ meno kärdadda, crespi. Questione di out-group, e non di proletari.
Strano a dirsi, nell’inverno del ’77 feci ritorno ad Addis.
Si dice che Hailä Mariam non fosse il vero cognome di Mänghәstu. Sta di fatto che continuò a farsi chiamare in tutto il mondo con un appellativo che ricordava il legame con la religione cristiana. Tra i vari divieti del nuovo regime non ci fu quello di culto, ma Abuna Theophilos, il patriarca, fu ucciso proprio nel 1977. Mänghәstu era la mano armata del potere imperiale. Credo che non fosse completamente consapevole di quel che provocò a partire dal 1974. A quei tempi, nel ghәbbì in cui abitavo con mia madre, si affacciavano case di libanesi e hararini mussulmani, di tigrini cristiani e si andava nei suq dei guraghe masticatori di ciat, gli abiti tradizionali si facevano confezionare dal shämmane (tessitore) oromo della regione dei dorze, mentre il latte lo portava a tutti una woizäro, donna sposata, del somali.
Il suo primo discorso non metteva in rilievo che là dove l’incontro fra le diverse tonalità di nero era avvenuto, come in Addis, uomini e donne si amavano e si odiavano per altri motivi. Cominciare a amministrare un paese partendo dalla giustizia sommaria non fu un grande esordio: era pura follia. Eppure migliaia di giovani rimanevano ammaliati da quell’uomo che era stato in grado di presentarsi davanti al Nәgus per dirgli che l’esercito aveva deciso di destituirlo.
Una giunta di colonnelli e non uomini e donne con forcone della presa di Bastiglia. Il popolo non si arricchì con il cambio di guardia. Anzi. Di certo qualche nobile aveva case ampie con dependance nella zona di Casancis, verso il vecchio aeroporto, dalla parte opposta, o verso sud, verso Qera o Popolari. A questi fu imposto di dare gli alloggi in più ai bisognosi, anche se nello stesso ghәbbì, nello stesso cortile. In più, gli edifici dati in affitto da un vecchio senza lavoro come da un aristocratico o da un kess, un prete della Chiesa Ortodossa d’Etiopia, rimasero occupati da chi li abitava, ma ora l’affittuario non doveva più lottare per gli aumenti del canone con il proprietario, doveva semplicemente pagare un prezzo politico-simbolico allo Stato, il quale rilasciava una ricevuta con il timbro del Därg: era nato il diritto alla casa con l’espropriazione dei beni immobili. Mänghstu si presentò al mondo come un vero dittatore. Non c’era un partito politico, non c’erano elezioni o segni di democrazia popolare. Il potere veniva gestito direttamente dai militari e dai nuovi funzionari e l’obiettivo era creare un popolo unito in un sistema collettivizzato dove tutto era proprietà dello stato.
Unità si chiama il primo figlio di Mänghәstu.
Andәnät.
Insieme alle festività della Chiesa Täwahәdo di Hailä Sәllassē, ora si celebravano anche quelle della religione mussulmana. Tutti erano etiopici senza alcuna distinzione, diceva il nuovo ras, ma furono in molti a pensare che era il caso di farsi tagliare i capelli in modo che non si capisse se erano più o meno zoma, lisci. C’erano pari opportunità per donne e uomini, il che significava che alla leva per andare a istruire il popolo erano chiamati ragazzi e ragazze che avevano la maggior età. I funzionari avevano una divisa, si dava del tu a tutti indistintamente, non c’era più alcun rispetto per gli anziani a cui ci si era rivolti fino allora con antu o әrso invariabilmente per uomo o donna invece che con il più amicale antä/anchi, (tu, al maschile e al femminile).
Mänghәstu aveva ereditato da Hailä Sәllassē l’Eritrea. L’annessione all’Etiopia da parte della forza della trinità era stata la risposta ai potenti sordi delle Nazioni Unite che l’avevano già deluso più di una volta. Era rimasto impunito persino chi aveva sparato contro la Croce Rossa, per non parlare di altre nefandezze. “È come sparare contro la Croce Rossa”, non è un altro modo di dire?
Unità era la parola d’ordine, dunque la guerra per l’unità era inevitabile.
Eritrei e italiani d’Eritrea giunsero nella capitale d’Etiopia. In realtà gli italiani più accorti avevano abbandonato l’ex Colonia facendo razionali calcoli economico politici da quando i rappresentanti del loro governo di Roma aveva ceduto tutto a Hailä Sәllassē. Non furono certo così stupidi da non capire che Addis Abäba era comunque la capitale, Africa per Africa, spostarsi da Asmara o Mәşәwa, cedendo casa e attività a qualche ricco indigeno, magari di origine arabo-yemenita, non era una cattiva idea. Questione di mercato. Andare là dove quasi sicuramente arrivavano occidentali disposti a spendere, dove c’erano sedi di Ambasciate e Organismi internazionali era certo meglio che rimanere in una zona periferica del Paese, abitata da un decimo neanche della popolazione. Non avevano torto. Si erano integrati ad Addis Abäba come nulla fosse cambiato. C’era chi insegnava alla Scuola Italiana, chi dirigeva l’Istituto di Cultura Italiana, chi aveva riavviato le industrie con il beneplacito di Hailä Sәllassē. Dunque nulla era mutato per loro, qualcuno si era persino portato la propria servitù dal profondo nord, così anche i cibi erano portati a tavola in modo assolutamente invariato, le case tenute pulite e difese dagli schiavi neri che avevano il privilegio di un letto in una dependence dell’abitazione, ben lontani dai padroni. L’Eritrea nello spazio di cinquant’anni aveva subito la colonizzazione e negli anni 50-60 i coloni italiani avevano la possibilità di ingresso pacifico nell’agognata Etiopia, proprio mentre nel nord cominciava l’adolescenza una generazione di futuri partigiani, formata da figli di eritrei e etiopici che avevano convissuto pacificamente, pronta contro chi avrebbe negato la libertà, bianco, nero o marrone che fosse. Di Addis la propaganda fascista aveva detto: “…Vera città giardino, la salubrità del clima e la bellezza dell’ambiente naturale contribuiscono alla vita serena delle famiglie dei lavoratori intenti alla valorizzazione dell’Impero. Serra di nuovi virgulti della razza che in Addis Abèba ha già il suo quarto indice di natalità, certezza di un futuro nell’Impero redento e difeso dalla spada di Roma”.
Io vidi i fuggiaschi d’Eritrea dell’ultima ora. Con l’arrivo di Mänghәstu la nazionalizzazione aveva convinto tutti gli italiani rimasti, gli etio-eritrei e i loro genitori etiopici e eritrei che se lo potevano permettere, a correre ad Addis nella speranza di una vita non certo facile, ma almeno lontana dalla zona di una guerra certa. 
Rispetto agli italiani di Addis quelli della colonia di lunga data parlavano per modi di dire, avevano uno strano accento e avevano un manifesto atteggiamento di superiorità nei confronti degli etiopici. Impossibile non ricordassero quel che gli italiani avevano raccontato loro dell’Etiopia: “…capitale sonnecchiante con le misere baracche e i rozzi tukul, dove la vita si svolge lenta e primitiva e cento mila esseri umani, vero branco di schiavi, languono nell’abbandono e nella sporcizia all’ombra e nel terrore della corte tafariana. Poveri bambini intristiscono nelle malattie e nel sudiciume, enfatici menestrelli rievocano assurde leggende di passati splendori ad un popolo abbruttito dalla schiavitù…Miscuglio di genti e di razze tenute assieme da un sistema di persecuzioni e di decime, di violenze e di bestiali torture in nome di una presunta regalità salomonica…Le armate italiane…con fiamme purificatrici, fanno piazza pulita delle luride catapecchie, nidi di malattie, miseria e sozzura nei quali alberga un pauroso vespaio umano. Bonifica radicale, definitiva. Centinaia di pompieri sono stati mobilitati per l’opera indispensabile e urgente…”.
I colorati eritrei parlavano una lingua molto simile agli etiopici colorati del Tәgray, dai quali io non ero mai stata capace di distinguerli in quanto appartenenti a uno o all’altro gruppo. Mänghәstu accolse in Etiopia tutti gli eritrei che fuggirono dal nord. Era ovvio che la fuga fosse un’implicita adesione al suo dettato. Andәnät. L’inizio della guerra contro l’Eritrea coincise con la mia partenza per l’Italia. Non ero mai più tornata a casa di mia madre, non sapevo niente di lei, né dei miei fratelli e parenti e andavo incontro al mio futuro altrove solo perché nel paese in cui ero nata, né il monarca né il rivoluzionario in grado di far diventare antimarxisti Marx ed Engels sapevano della mia esistenza. Forse meglio così. La stessa cosa sarebbe successa nel paese di destinazione, con la differenza che lì niente mi avrebbe ricordato la mia infanzia, nessuno si sarebbe rivolto a me chiamandomi con l’yé finale anche senza conoscermi, così come io non avrei potuto più chiamare Mamush-yè il mio cugino prediletto.
Tornai in Etiopia dopo nove anni.
Ero vissuta in un paese democratico e civile. Un paese costruito a tavolino dai grandi del mondo fin dal termine della seconda guerra mondiale, lasciando al potere i fascisti diventati antifascisti, considerati più garantisti di coloro che la dittatura l’avevano combattuta sin dall’inizio. Volai con l’Aeroflot, che era il low cost di allora per arrivare in Etiopia, passando per Mosca. Nel biglietto erano comprese la sosta per una notte nell’albergo dell’aeroporto della capitale comunista e una visita della città, ammirata dal finestrino del pullman in cui ero l’unica passeggera prigioniera, perché sprovvista di visto di ingresso. La cena prevedeva un antipasto di uova di storione. Fu la notte dell’ambientamento. Il passaggio dal mondo capitalista a quello dell’area sovietica.
Arrivai infine in un paese che riconoscevo a fatica. Ero frastornata ma anche felice in un modo inesprimibile. Presi una parte dei dollari americani che era obbligatorio mostrare e dichiarare all’aeroporto. Mi feci portare vicino al Mexico Square e entrai in un albergo dello Stato per cambiarli. Facevo tutto con la massima calma, assaporando ogni momento come se soltanto in quella terra i miei gesti avessero un significato. Erano gesti di nostalgia, di malinconia, di totale inconsapevolezza. L’impiegata mi fece dei cenni che non capivo e mi venne il dubbio che qualcosa nei documenti non le fosse chiaro. Fu lei a guardarsi intorno con evidente timore e poi mi consegnò il denaro. Al termine dell’operazione la donna osservò impietosita la mia lentezza, probabile visione ai suoi occhi di altri con la mia stessa storia, e mi chiese “Ma non sai niente?”. Non sapevo cosa. “Vieni”, mi sussurrò, e in un angolo dove era sicura che nessuno ci avrebbe udite, mi disse: “Devi rivolgerti al mercato nero, il cambio ufficiale è di 2 birr, ma fuori te ne danno anche 10, la nostra valuta non vale niente, è tutta una menzogna”. Mi accorsi con sorpresa che capivo perfettamente l’amarico.
Qualche ora dopo rividi mia madre. Sorrideva incredula, così tanto che mi accorsi che le mancava un molare…cosa le era successo? Non aveva neanche quarant’anni e il suo viso era quello di sempre. Ricorderò per tutta la vita quel suo sguardo, quel sorriso e quella fretta di ridurre quei pochi passi che ci separavano. L’ultima volta che c’eravamo viste ero una bambina e ora ero tornata da lei all’età di ventidue anni. In quegli anni vestivo quasi sempre di nero. Così come oggi si trovano dovunque solo abiti viola, allora il colore predominante nei negozi italiani era il nero. L’omologazione era anche nell’abbigliamento. Divise scelte, a differenza di quelle imposte dai dittatori. E le prime parole che mia madre pronunciò dopo tutti quegli anni furono: “Man motä?” Chi è morto? Io non sapevo cosa risponderle. Era un indovinello o cosa, visto che me lo chiedeva sorridendo. “Els-yé, Els-yé, mäţašәlәñ”? Mia Elsa, Elsa mia, sei tornata da (per) me? “Awo, alähugn, mäţahu” Sì, ci sono (sono qui), sono arrivata. Prendemmo un taxi verso Lidetà, lì mi aveva preparato una stanza e voleva assolutamente che mi riposassi, dovevo essere stanca, tanto stanca. Mi sdraiai sul letto e mi accorsi che aveva ragione. Ero stanca da dodici anni. Mia madre era felice così, con me sul letto a riposare e lei lì a guardarmi. Dovevo avere un’espressione interrogativa, perché mi chiese “Layšә alәcәlәm?” Non posso vederti (guardarti)?
Era una domanda così difficile, così terribile.
La guerra agli eritrei era appoggiata dagli Stati Uniti, ma non quella contro i somali. Per la prima guerra Mänghәstu si avvalse dei soldati volontari e delle armi degli americani. E poi una volta interrotto ogni rapporto con questi, aveva chiesto e ottenuto miliardi di dollari e di armi dai sovietici e soldati cubani disposti a combattere con lui su tutti i fronti, usando anche i soldi che arrivavano in Addis per i poveri colpiti dalla siccità. Uno dei miei cugini si era arruolato disperato per la mancanza di lavoro e convinto che il regime indicasse la strada dell’unità del paese senza più disuguaglianze. Aveva udito ad Abyot quelle parole asimmetriche care ai fascisti e ai nazisti che sanno convincere. Mänghәstu era uno di loro. Per la sua dialettica qualcuno dice che era esperto in aradәnät, luogo comune per furbizia da mercante. Ma un dittatore sanguinario non può essere definito semplicemente un furbastro. Il mio cuginetto prediletto aveva impugnato le armi e si era trasformato in carne da macello, possibile obiettivo dell’esercito ufficiale avverso, ma soprattutto dei nuovi gruppi di partigiani costituiti da ragazzi che non sapevano cosa fosse uno stato in pace, come lui. Andai da mia zia e cercai di capire come avrei potuto rintracciarlo per incontrarlo prima di ripartire. Nessuno osò rispondermi e io non volevo assolutamente pensare al peggio. Se non fossi mai partita da quel paese sono sicura che mio cugino non si sarebbe allontanato da casa.
Il mio rientro ad Addis durò a quel punto soltanto una settimana. In quei pochi giorni feci in tempo ad andare al mercato dai commercianti a cambiare i dollari che avevo. Le merci erano in vendita nei negozi statali, ma cosa avrei acquistato? Era indispensabile che io lasciassi tutto quello che potevo alla mia mamma e ai miei fratelli e me ne tornassi in Italia ad aspettare notizie del ritorno di mio cugino. Le strade brulicavano di trafficanti, di militari tronfi e funzionari corrotti, di finti vagabondi. I funerali tradizionali erano proibiti, perché i martiri della guerra, centinaia di migliaia, erano morti per la libertà. Näzanät.
Libertà. Così si chiama la figlia di Mänghәstu.
L’Abyot Adebabay si era allargata a discapito dei campi da tennis del Circolo Italiano, la zona di Bole era stata cementificata, così come quella del vecchio aeroporto. La povera gente si dannava e faceva la fila col libretto per l’acquisto razionato di ogni bene di prima necessità, pagando con i pochi spiccioli che aveva, la decima per la nuova chiesa del blasfemo “Forza di Maria”, Mänghәstu, quegli aiuti alimentari provenienti dall’estero, per essa, mentre i guad, compagni solo di nome, bevevano fiumi di whisky e mandavano i figli negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Canada, in Svezia. Le cospirazioni c’erano e molti ragazzi della mia età erano già pronti a dare la vita per cacciare il colonnello mai diventato generale.
Credo che Mänghәstu abbia provocato l’olocausto d’Etiopia per capriccio. Per un fatto puramente personale. Se non è così l’ha fatto per a_Andәnät e n_Näzanät, motivi di sangue e di seme, i suoi figli. Non certo per l’Unità e la Libertà del paese che ha invece oppresso, derubato e dissanguato. Mänghәstu fu salvato dalla Cia e portato in esilio. Un paese civile che ha legalizzato la pena di morte per rei minorenni è sempre intervenuto nel Corno d’Africa, insieme ad altri potenti d’Occidente, chissà perché, per salvare la vita ai criminali che hanno martoriato persone inermi. Nel silenzio degli intrighi. Due pesi e due misure.
L’Etiopia è il palcoscenico delle prove di teatro.
Badoglio, Graziani, Mänghәstu e chissà quanti altri calcano le scene e poi si chiude il sipario come nulla fosse. Come in una finzione. Questione di in-group. Morti e feriti non sono comparse, ma veri sacrifici umani di un mondo che, per capriccio, ha due pesi e due misure.
È un modo di dire.

Voi, figli dei figli, gridate con rabbia, con odio,
evviva la libertà,
perciò non gridate evviva la libertà!
C’è una libertà vera e una libertà bugiarda,
ma è meglio la non violenza di quella vera. 
(Libera citazione - P.P. Pasolini)

Note
Galla è il nome somalo degli oromo. È un dispregiativo.
Oromo (in lingua oromo significa popolo, gente).
Shankilla (significa negro) è un dispregiativo usato dagli oromo per indicare tutti i popoli del sud etiopia, inclusi i somali.
Agame è il nome dispregiativo con cui gli eritrei chiamano i tigrini.
Baria (quelli del discorso di Menghistu) sono i più antichi abitanti seminomadi dell’Etiopia.
Cärcir Godanà in realtà è Churchill Godanà, Viale Churchill, storpiata da me bambina.
Churchill protesse Badoglio e gli altri criminali fascisti.
Casancis – case incis.
Popolari – quartiere pensato dagli italiani per gli operai (italiani), tenuti separati dagli impiegati.